La realtà vista da una prospettiva differente

So quello che sono e sogno quello che non posso essere, ma non mi illudo di essere quello che sogno

sabato 19 marzo 2011

4. Il tempo e i turisti


 Stasera è più stravolto del solito, ma ha voglia di parlare. Deve aver già speso quel poco che ha appena guadagnato in una birra o in non so che, perché appare un po' su di giri. Gli domando se ricorda a che ore abbiamo fissato i nostri incontri. Per tutta risposta, Marquinho mi dice che per lui gli orari contano ben poco:
“Tu mi stai abituando ad informarmi sull'ora almeno una volta al giorno, per sapere quando cominciare ad avvicinarmi al centro della città. Di solito non ho mai idea di che ore siano, ma, adesso, dopo un po' che il sole è tramontato, chiedo sempre a qualcuno, per non farti aspettare troppo. Stasera, sinceramente, quando mi sono informato, mancavano solo dieci minuti al nostro appuntamento e mi trovavo ad almeno un'ora e mezza di cammino. Tu, invece, sei sempre qui ad attendermi: ci tieni proprio alle nostre conversazioni, eh?
Comunque, se non fosse per te, perché dovrei informarmi sull’ora? Non ho appuntamenti a cui presentarmi o programmi televisivi da assistere. Per me, una giornata, un secondo o un'ora sono la stessa cosa”.
“Esagerato! Un secondo e una giornata intera passano a velocità ben diverse!”.
“Voglio dire che nella mia vita non conta il tempo dell'orologio, ma quello della natura e dei bisogni. Mi regolo con il sole per sapere quando le strade sono libere dalle auto, quando è il momento di raccogliere le lattine, perché le persone hanno già messo i sacchi di spazzatura per strada, quando è il momento di fare il parcheggiatore e quando è meglio fare la siesta. È importante conoscere il giorno della settimana, soprattutto da venerdì a domenica, quelli in cui è più facile guadagnare come parcheggiatore o raccattando vicino ai bar, piuttosto che frugare i rifiuti di mezza città. È, poi, fondamentale essere informati sui concerti ad ingresso libero, dove scorrono litri e litri di birra in lattina; se ne fanno anche cinquecento in poco tempo!
Ma ciò che conta maggiormente è il nostro orologio interno, che ci dice quando dormire, mangiare, ecc. Io cerco di ascoltare soprattutto questo; quindi, se mi va di dormire 16 ore al giorno, lo faccio senza troppi problemi. Se, poi, alle 2 di mattina desidero farmi un bagno, cammino fino al mare e mi sento padrone dell'oceano, perché difficilmente c'è qualcun altro. Poi, mi sdraio sulla spiaggia e guardo le stelle finché mi va; posso perfino mettermi a cantare o urlare!”.
“Bene, ma, per curiosità, tieni il conto dei giorni della settimana e dei mesi?”.
“Guarda che non sono fuori dal mondo! Basta passare davanti a un'edicola e dare un'occhiata ai giornali in esposizione. A volte, leggo anche le notizie della prima pagina. Solo, non ho mai avuto un orologio: ti fa seguire la stessa routine tutti i giorni ed è una delle maggiori cause della noia, perché sei sempre in attesa di qualcosa e stai male se non succede quello che aspettavi, o se ritarda. Del resto, voi ragionate misurando il tempo con uno strumento artificiale e non avete la capacità di guardare a fondo la realtà, per cogliere i piccoli cambiamenti che avvengono in ogni istante; almeno, in strada è così. Ti suggerisco al riguardo di fare un cammino che sei solito percorrere, però alla metà della tua velocità abituale. Vedrai cose che non avevi mai notato e darai tempo agli elementi della natura di agire e comunicare con te. Come ci si può annoiare? Io non aspetto mai niente, ma vedo e vivo quello che ho intorno e dentro di me. E posso dire di stare bene. Più che la noia, mi capita di sentire la stanchezza, quando non riesco a soddisfare i bisogni del corpo, o devo lavorare per ore, mentre preferirei starmene sdraiato all'ombra di una palma e farmi accarezzare dalla brezza oceanica”.
“A sentirti parlare con questa serenità, sembri davvero fortunato; molto più di coloro che sono sempre costretti a fare qualcosa per vincere la noia. E c'è chi arriva ad uccidersi o drogarsi, dopo anni passati a costruire proprio quello status e quel ruolo diventati insopportabili”.
“Mah, sinceramente non li capisco. Secondo me queste persone sono disgraziate, perché non hanno mai vissuto per davvero, sempre rinchiuse in un mondo ovattato, davanti ai loro computer, nella loro casa isolata dal vero mondo, dove gli orari sono prestabiliti persino per i piaceri. Se conoscessero la vita sul serio, come potrebbero annoiarsi? Niente è monotono nella strada: ogni giorno succede qualcosa di diverso dal precedente; un pappagallo può d'improvviso passare con il suo gracchiare sarcastico, colorando con la sua esuberanza il grigiore dei palazzi seri. E che dire, poi, del nostro corpo, che è in continuo divenire? Perde sempre liquidi, che dobbiamo reintegrare; vuole mangiare, camminare, sgranchirsi...
Ma sono soprattutto i sogni l'anima della nostra speranza e la ragione per cui io apro gli occhi ogni giorno, anche se quello che mi aspetta non è sedermi sulla poltrona di un salotto a bere tè con pasticcini. Infine, se una persona si annoia è perché dà per scontata una cosa fondamentale: essere viva. Ogni giorno di vita in più è un miracolo e ogni respiro e battito del cuore dovrebbero costituire motivo di stupore e gratitudine, non certo di noia. Se rispondo a questo dono mettendomi in vena o in stomaco delle porcherie, allora sì che divento non solo fesso, ma anche ingrato per il dono della vita. Io ho ben altro da fare: vivere!
Ma lascia che ti faccia io una domanda adesso: tu sei davvero così interessato a quello che dico?”.
“Certo! Mi hai incuriosito fin dalla prima volta che ti ho visto. E, poi, visto che sono in un Paese che non è il mio, voglio approfittare di ogni momento per imparare il più possibile attraverso nuove esperienze”.
“Mi piace quello che hai affermato: vedrai che ne faremo di esperienze insieme! Sai, non sopporto quegli stranieri che vengono qui convinti di appartenere ad una 'razza' superiore, solo perché credono di essere più ricchi di noi. Sono quasi meglio quelli che arrivano per 'andare' con le brasiliane... Questi, almeno, apprezzano una delle cose più belle ed evidenti del nostro Paese, gli altri, quelli che si ritengono padroni del mondo, sono più tipi da sfruttare la bellezza, con l'aria di chi può comperarsi tutto. Mi fanno un po' pena anche i turisti che scelgono il Brasile per perdere la verginità. E ti assicuro che ce ne sono, me lo hanno raccontato alcune mie amiche prostitute: li riconoscono subito dalla loro aria timida, quasi si vergognano a parlare, figurarsi a toccarle! E loro, le ragazze, cercano di essere carine e dolci, a volte persino li baciano! Ma ci sono pure di quelli che non staccano più gli occhi e le mani dalle loro curve e credono di essersi innamorati. Magari arrivano a chiedere alla donna il numero di telefono e la mail, dimenticando che è andata con loro solo per soldi.
Una di queste mi ha raccontato di aver avuto un cliente straniero che non trovava il coraggio di toccarla, né di svestirsi; così stettero un'ora nel motel a parlare e basta. E lei rimase tanto colpita dalla dolcezza di quest'uomo, così diverso dagli altri spudorati, che cominciò a baciarlo con dolcezza, carezzarlo e, solo quando lui si sentì a suo agio, lo fecero, ma di una forma che lei non aveva mai sperimentato: non succube di un uomo che brami selvaggiamente il suo corpo per un piacere egoistico, ma dolce guida e accompagnatrice di un amico attraverso le vie del piacere fisico. Perché, se è vero che il sesso è il frutto di un istinto animalesco, come ogni cosa, può essere trattata con arte e romanticismo. Certo, non è così per quelli che vengono qui con la loro presunzione per possedere tutto quello che possono, non per conoscere, imparare ed essere disposti a lasciarsi cambiare, crescendo. E allora li vedi, affamati di carne, peggio di cani, parlare alle donne che mostrano più sfacciatamente le loro beltà fisiche, non certo a quelle che proteggono la loro intimità, credendo ancora che esista il principe azzurro, l'amore eterno e le nozze in bianco. E, sempre quei turisti presuntuosi, camminano per le vie pensando esclusivamente a fotografare e farsi fotografare nei posti che sembrano loro più belli, ignorando le persone che camminano al loro lato, o guardandole solo per trovare la più adatta per farsene scattare una. Tuttavia restano sempre loro in primo piano, non il paesaggio o le persone del posto. Cosicché - è come se li vedessi con i miei occhi - quando tornano al loro paese, mostrano le foto a tutti i conoscenti, spesso ricamandoci sopra un monte di bugie; in realtà, se non si fossero mossi di casa ed avessero semplicemente stampato da internet le foto della città che volevano visitare, magari incollandoci in un angolino la loro, non si sarebbero persi niente. Poiché arrivano qui, o in altri posti lontani dal loro paese di origine, credendo di poter fare le stesse identiche cose; e presupponendo che quello che li circonda sia concepito sui loro bisogni, non sulla storia del luogo. Ma allora, mi domando, perché viaggiano se si credono già straripanti di tutto? Avrebbero, per esempio, la possibilità di cercare di capire uno stile di vita diverso dal loro, parlando con le persone del posto, non solo per chiedere di spiagge ed altri luoghi da visitare e fotografare, ma per scoprire quali sono i loro sogni, come lottano per stare bene, raggiungere la felicità e sfuggire alla tentazione della violenza, con i mezzi che hanno a disposizione, oltre alle miriadi di specificità personali che non si imparano sulle guide turistiche”.
“Capisco quello che vuoi dire. Ma toglimi una curiosità: fra tutti i turisti, noti delle differenze di comportamento o personalità in base alla provenienza?”.
“Mah, io non ho pregiudizi di questo tipo, però, col tempo, ho visto che certi comportamenti sono più comuni a turisti di un determinato Paese. Normalmente, gli spagnoli e gli italiani sono molto simili, nei modi di fare, a noi brasiliani: amano le feste, le donne, la confusione e cercano sempre di non pagare, o di ottenere uno sconto, che sia del 50% o del 5%. I francesi sono i più equivoci e difficili da capire nelle loro reali intenzioni; sono come i politici e gli avvocati: sembrano non dire mai quello che pensano veramente. I tedeschi e gli inglesi, se non sono in coppia, e soprattutto se non più giovani, sono i più inclini a frequentare le prostitute, forse perché hanno maggiori difficoltà a parlare portoghese e quindi ricorrono subito al portafogli, senza perder tempo col dizionario. Ed anche perché non vogliono faticare per trovare una più giovane di loro.
Conseguentemente, pure l'offerta si è adeguata: c'è una spartizione 'equa e solidaria' del mercato, una sorta di segmentazione. Ci sono quelle che parlano un po' di tedesco, altre parlano inglese, altre francese; gli italiani e gli spagnoli riescono sempre a capirli. Naturalmente, così facendo, possono guadagnare di più che con i clienti brasiliani, perché gli stranieri non conoscono il 'tariffario' locale.
Ah, ti ho parlato solo degli europei, ma per i turisti sudamericani vale quanto detto degli italiani e spagnoli. Mentre i nordamericani sono una categoria a parte: a volte li scambi per tedeschi, ma sono più tecnologici e ricercati in quello che fanno; amano i posti chic e le donne di alto livello. Quando sono in gruppo e giovani, come la maggior parte di quelli che mi capita di vedere, diventano i più insopportabili: non hanno rispetto per niente e nessuno, sembrano camminare con il paraocchi, incapaci di cogliere le specificità del mio Paese e la ricchezza delle persone che incrociano. Conta solo il loro piacere personale, la loro emozione, il loro sentirsi al di sopra, qualsiasi cosa facciano e in qualunque luogo si trovino; e credono di portare nel mondo lo stile di vita e la democrazia migliori. Detto fra noi, sono quelli che più mi piacerebbe assaltare”.
“Vabbè, spero sia una battuta...”.
“Insomma... Purtroppo, le persone indisponenti non mancano mai e se dovessi assaltarli tutte... Senza contare che non sono un ladro. Comunque, se pure in tanti escono da questo quadro che ti ho dipinto, sono in grado di indovinare la nazionalità di almeno il 90% dei turisti che vedo per strada, per l'atteggiamento o per il loro aspetto. Tu, però, hai qualcosa di diverso, che ancora non ho capito... Avrò tempo di esaminarti meglio, se non ti verrò a noia”.

martedì 8 febbraio 2011

3. La strada e il rosario


Marquinho: “Cosa vuoi sapere della strada? È qui, a portata di mano per tutti. Basta passarci intere giornate per scoprirla. La strada è questa che vedi davanti a noi. È tutto e il contrario di tutto: vita e morte; paradiso e inferno; prostitute e angeli; polizia e purgatorio; rifiuti e pulizia”.
Io: “Beh, allora raccontami qualche tua esperienza. Oppure dimmi se stare in strada è una tua scelta e se hai mai fatto qualcosa per uscirne”.
“Uscirne? Per andare dove? Quando sei in strada, sei fuori da qualcosa di non naturale, chiuso e quindi falso, non veritiero. La strada è il 'fuori'. È chi se ne sta in casa che, via via, se ne deve uscire, perché non resiste più al chiuso, sia per fare la spesa, per lavorare, o per cercare qualche forma di divertimento o passatempo. Io, invece, non ho bisogno di uscire: sono sempre fuori.
Perché, allora, dovrei fare qualcosa per lasciarla? Le poche possibilità che ho avuto, le ho buttate via, all'inizio istintivamente, ma, in seguito, per scelte ben coscienti.
Da bambino, per esempio, quando già non vedevo più mia madre, un signore parlò a me e agli altri bambini che chiedevano l'elemosina in un semaforo vicino al porto. Era di una certa associazione e voleva portarci in un 'centro di accoglienza', come lo chiamava lui. Diceva che là non avremmo dovuto lavorare, che c'erano tanti altri bambini come noi e avremmo potuto giocare e mangiare, senza preoccuparci di niente. Difficilmente avremmo rinunciato alla nostra libertà, abituati a non avere nessuno che ci dicesse cosa fare e non fare, quando mangiare, dormire, ecc. Anche se eravamo ragazzini, ne avevamo la consapevolezza. Tuttavia eravamo curiosi e senza nulla da perdere visto che, pensavamo, avremmo sempre potuto andarcene. Così, qualche giorno dopo, quando quel signore ritornò, quattro di noi salirono sul pulmino che ci portò in una specie di gran magazzino in periferia. C'erano tanti materassi buttati per terra e, in una zona separata, la mensa. Mangiavamo gratis, giocavamo a calcio e continuavamo a chiedere l'elemosina ai semafori, per comprare qualche dolcetto o un po' di fumo. Ma, dopo pochi giorni, il signore ci disse che non avremmo potuto più uscire quando pareva a noi. Avevamo degli obblighi: frequentare la scuola alla mattina, fare i compiti nel pomeriggio e dormire la notte. Ci era consentito giocare solamente negli orari prestabiliti ed all'interno del cortile, con gli altri bambini della casa di accoglienza. E ci disse che, se avessimo fatto i bravi ragazzini, forse un giorno qualcuno ci avrebbe adottato. Acconsentimmo, decidendo, in realtà, che era il momento di andarcene. Seppure per pochi giorni, avevamo mangiato gratis e dormito su un vero materasso. In verità uno di noi rimase là e seppi in seguito che venne adottato; chissà dove sarà adesso...
Quel signore venne altre volte al semaforo, ma non ne volevamo sapere di chi voleva imporci cosa fare delle nostre giornate. Nel frattempo però, i miei compagni avevano scoperto il gusto di sniffare la colla, fumare qualcosa di più del tabacco e diventavano sempre più strani; avevano imparato queste abitudini da altri ragazzi di strada più grandi di noi. Ma io non mi feci fregare, perché mi impaurivano le loro facce: sembravano, a volte, pazzi euforici, altre quasi morti. Così mi allontanai da loro e cominciai a vivere per conto mio, bambino piccolo e solo in un mondo sconosciuto e tanto grande. Eppure, proprio questa mia incoscienza fu la forza che mi diede continuamente coraggio e non spense mai la mia curiosità.
Fu allora che conobbi 'donna Sonia', una signora anziana che tutti chiamavano 'nonna'. Aveva uno sguardo tranquillo, rasserenante e mi chiamò figlio dalla prima volta che mi vide; di giorno, stava quasi sempre seduta sulla scalinata di una chiesa nella Praça Piedade1, in mezzo ad altri senzatetto. Mi chiese se stavo bene e se avevo fame e mi offrì un pezzo di panino; lo presi senza dir niente. Poi me ne restai lì qualche secondo e la guardavo senza fiatare. Allora lei mi abbracciò come nessuno aveva mai fatto prima; era cicciottella e calda. La sua stretta, contro quel petto grande e morbido, mi diede coraggio e un po' di speranza. Mi disse che avrei potuto star lì con lei e gli altri e così feci per diverso tempo. Non chiedeva mai dove andassi e non dava ordini, solo quel suo abbraccio e quello sguardo sereno, che non era di questa terra. O, per lo meno, non avevo visto in nessuno, fino a quel momento. Un giorno le chiesi come mai era così e mi disse che la sua forza veniva da Dio; le chiesi chi era Dio e lei mi rispose che è il nostro padre, la nostra madre e ogni sentimento buono che abbiamo. Le dissi che non avevo più né l'uno n'è l'altro, né tantomeno sentimenti non negativi; volevo sapere perché mai mi aveva dato una vita così dura e come potevo chiederGli aiuto e parlarGli. Mi rispose che un Dio in cielo ce l'hanno tutti, indipendentemente dal volerlo o no e che la mia vita, anche se ero un bambino povero ed orfano, era comunque vita e dovevo ringraziare per ogni minuto e secondo che mi venivano donati. Così, mi insegnò a pregare e mi regalò un rosario.

Marquinho si interrompe un attimo; saluta un suo compagno di strada, che ci sta passando davanti, sotto il peso e l'ingombro di un enorme sacco di lattine sulle spalle.
“Un'altra possibilità di avere una vita 'normale' l'ebbi qualche anno dopo. Quella volta, però, ero stanco della continua lotta quotidiana per mangiare qualcosa, ormai da tempo monotona. Ed anche la libertà aveva perso quell'alone magico che ha nei pensieri di un bambino. L'avventura che più sognavo di vivere era possedere, in un giorno non così lontano, almeno una parte di quelle cose che avevano tutti quelli che mi passavano davanti: una casa dove tornare la sera, una moglie da baciare e con cui costruire quella famiglia che non avevo mai avuto e che mi sembrava una cosa dell'altro mondo, una piccola comunità costruita sull'amore e non sulla forza. Sapevo di dover fare molti più sforzi degli altri per ottenere tutto ciò, ma ero convinto che avrei avuto un'ulteriore possibilità, che difatti venne da un'altra associazione. Rimasi in quest'altro centro per minori per un bel po'; certo, mi costava diversi sacrifici, come dover frequentare la scuola e far finta di fare quello che mi veniva ordinato. Ma c'erano tanti altri bambini che venivano dalla strada ed allora riuscivo a controllare la mia voglia di libertà. Imparai persino l'alfabeto e a leggere alcune parole, oltre a scrivere il mio nome. Mi dissero che avrei dovuto restar là finché non fossero risaliti ai miei dati anagrafici e poi avrei potuto essere adottato da una famiglia. Ed io immaginavo di diventare come quei bambini che vedevo dall'altro lato dei vetri, sui sedili posteriori delle auto, chiusi in un universo ovattato, dove altri sceglievano per loro cosa fare, dove andare, a che ore dormire, chi vedere, con chi e a cosa giocare. Certo, in quel periodo non avevo più bisogno di mendicare ai semafori, né dormire sui cartoni con un occhio aperto. Tuttavia non potevo andare a vedere il mio mare, in quelle notti così stellate che il cielo sembra un telo nero bucherellato e tanto vicino da poterlo toccare con il dito più corto; oppure pisolare nelle ore calde della giornata, correre e urlare in mezzo alla gente 'per bene', nei vicoli del centro o per le strade larghe del porto. L'unico cielo che potevo guardare era il soffitto della camera divisa con altri, finché non spegnevano la luce e dovevo sorbirmi il puzzo di urina tutte le notti, grazie a qualche mio compagno.
Quanto più diminuiva la mia volontà di accettare i sacrifici in cambio di una vita ‘normale', tanto più si risvegliava quel bisogno di libertà che avevo dato per morto: era il richiamo della strada, del mare notturno, del samba che può avvolgerti con le sue note in qualsiasi angolo di strada, che sia da un'auto, da un vecchio amplificatore di un bar, o dalla chitarra di un instancabile sognatore dai capelli ormai bianchi; e proprio questa discreta ma incessante voce interiore vinse sulla possibilità di una futura ed eventuale immagine di 'normalità'. Era il momento di fuggire.
“Ma non ti capita mai di desiderare un letto, un materasso, un tetto?”.
“Un materasso, a volte, lo trovo e un tettoia per ripararmi dalla pioggia c'è pure qui. È questa la mia normalità; siete voi la diversità, ché avete bisogno delle vostre case in affitto o comprate con sacrificio, almeno la maggioranza, senza poter cambiare quartiere, né tanto meno città da un giorno all'altro, se vi viene a noia. Per non parlare dei vicini, che potrebbero essere dei grandi scocciatori. La strada è la mia casa, io sono il padrone di tutte le strade. Dove c'è uno spazio libero, ci posso andare, senza dover pagare tasse o chiedere il permesso a qualcuno; questo proprio non lo concepite, eh? Perché lo so che noi senzatetto siamo guardati con pena... È vero che tanti di noi vorrebbero una casa, oltre ad altre cianfrusaglie, ma gratis e senza bollette varie, dal momento che non riuscirebbero a sostenere la maggior parte delle spese, senza un reddito decente. Eppure, sarebbe diritto di tutti avere una vita dignitosa. E parlo soprattutto di chi si è adattato a vivere in una abitazione, magari con moglie e figli, e si vede costretto a stabilirsi per strada, perché non può più permettersela, o perché disoccupato, o perché guadagna una miseria con un lavoro, a volte, massacrante.
Bene, amico. Per oggi, finiamola qui: sono stanco, ho camminato parecchio per raccattare le lattine e portarle al centro di raccolta. Vado nel mio lettuccio. Ciao a domani”.
E il mio amico se ne va a sedersi sui suoi cartoni, coperto da un lenzuolo sudicio e bucherellato. Lo lascio che guarda il passare delle poche auto, ormai a notte inoltrata. Forse prosegue nei suoi pensieri, forse ne elabora altri che non vuole condividere con me; o, magari, si lascia semplicemente vivere.
1Praça Piedade, letteralmente 'piazza della misericordia', è situata nel centro di Salvador ed ospita abitualmente decine e decine di mendicanti, giorno e notte, oltre alle loro poche cose, tenute in sacchetti di plastica ed accumulate su cartoni e lenzuoli logori. Su di essa si affacciano due chiese (Nossa Senhora da Piedade, e São Pedro) e deve il suo nome al fatto che essa era, fra 1700 e 1800, teatro delle esecuzioni capitali dei condannati a morte. La piazza è anche la sede della facoltà di economia dell'università federale di Bahia, del Gabinete Português de Leitura (istituzione culturale e letteraria di studi lusofoni), del comando della Polizia civile e fa parte di uno dei circuiti del carnevale baiano. Tanta storia, tanti ruoli, tanta sofferenza ed indifferenza.

giovedì 3 febbraio 2011

2. Parlami di te, Marquinho


Le persone ci guardano incuriosite. Non è comune vedere un mendicante seduto al tavolo con uno straniero, ma non ci faccio caso, tanto meno lui, certo abituato più di me agli sguardi spesso indiscreti della gente, senza mai rifugiarsi nell'intimità della propria casa.
Dunque, Marquinho non conosce il proprio cognome, è nato e vive in strada, dove è cresciuto ed ha imparato a camminare e parlare. Non conosce la sua età, né suo padre; la madre, dice, è morta quando era piccolo, o è come se lo fosse, “tanto non farebbe differenza”. Non ha amici, ma solo 'compagni', come li chiama lui, altre persone che condividono la stessa vita e sorte. Quando arriva da mangiare e bere, la conversazione si interrompe, giusto quei due minuti sufficienti per trangugiare panino e birra. E comincia già a non voler rispettare il nostro patto, chiedendomi un’altra bibita. Gli ricordo che il nostro accordo ne prevede solo una a serata ma, dopo aver insistito, non mi resta che promettergliene un'altra, però alla fine della nostra chiacchierata. E lui riprende a parlare di sé, dicendomi che in questi giorni non ha lavorato molto; i suoi modi di guadagnare sono quelli di tutti gli abitanti della strada: oltre a mendicare, può fare il parcheggiatore abusivo, come ce ne sono tanti a Salvador, soprattutto vicino ai locali senza posteggio privato. Il loro compito è indicare agli automobilisti il posto libero più vicino, aiutarli nelle manovre e, in cambio di una ricompensa anticipata, assumersi l'impegno di tener d'occhio l'auto fino al ritorno del proprietario. Negar loro la 'tassa', comporta la certezza quasi assoluta di ritrovarsi la macchina rigata, o peggio. D'altro canto, è difficile, per chi ambisce a tal mestiere, trovare una parte di strada su cui un concorrente non rivendichi di essere arrivato prima e di avere quindi diritto di monopolio in quel tratto. Un'altra possibile fonte di sostentamento è fare il raccoglitore di rifiuti riciclabili; infatti, a Salvador è molto carente, per non dire nullo, il sistema di raccolta differenziata con cassonetti. Per compensare questa mancanza, esistono dei centri privati di raccolta, che pagano il materiale riciclabile che ricevono. Ed è frequente vedere persone camminare con un grande sacco sulle spalle, frugando fra i mucchi di spazzatura e nei cestini alla ricerca di lattine, plastica, cartoni, spesso aprendo sacchi d'immondizia lasciati sulla strada e spargendone inevitabilmente il contenuto. Generalmente, ogni 'raccattatore di rifiuti' (traduzione letterale del portoghese catador de lixo) raccoglie un solo materiale, così che, con il tempo, conoscerà in quale posti della città può trovarne in maggiore quantità.
Queste sono le possibilità che un abitante della strada come Marquinho, senza 'buona apparenza', formazione e curriculum ha di guadagnare; naturalmente, dice, ci sono anche quelli che commettono piccoli furti. Vuole comunque precisare che la maggior parte dei senzatetto comprende persone oneste ed umili, ma, realisticamente, ammette che quelli che cadono nel vizio dell'alcool e della droga (crack, soprattutto) perdono quasi ogni scrupolo. Tuttavia il lavoro e il mangiare non sono pensieri che tolgono il sonno alla mia nuova conoscenza: ripete che, in qualche modo, se la caverà anche domani. E per il momento gli basta essere vivo e con la pancia non vuota. Beh, mi sorprende la sua sincerità e le sue confidenze, nonostante abbiamo appena fatto conoscenza.
La preoccupazione per il lavoro è di chi è così disgraziato da non poterlo lasciare neanche per una settimana o un mese perché ha una casa, una moglie, dei figli, un'automobile e una reputazione da difendere. Io non ho niente di tutto questo, non l'ho mai avuto e non provo più neanche invidia. La curiosità c'è, delle volte, per uno stile di vita che vedo sempre e solo dall'esterno, ma penso che non durerei più di un giorno con tutte quelle complicazioni: mi sentirei soffocare. Per questo la gente si deprime, si lamenta e cerca sempre nuove trasgressioni. Oppure, trova nel viaggio un breve distacco dalla realtà in cui si è costretta, ma poi, inevitabilmente, ritorna e tutto ricomincia da capo; anzi peggio, perché ha assaporato almeno in parte la libertà senza, però, nemmeno aver avuto il tempo di digerirla, come se fosse stata costretta a vomitarla. A dire il vero, ho anche sentito dire da alcuni che in vacanza si annoiano e, dopo due o tre giorni, tornerebbero volentieri al lavoro. Penso che le imprese di questi dovrebbero toglier loro una parte dello stipendio per non lasciarli mai con la mente libera dagli impegni, così da non morire di noia, perché incapaci di ascoltare ed ascoltarsi. Non riesco proprio a capacitarmi di come sia possibile che un lavoro, che la maggior parte delle volte non è affatto un piacere o la realizzazione di una vocazione, diventi il maggior pensiero di ogni giorno”.
Scusa, Marquinho, ma allora cosa dovrebbero fare? Smettere di lavorare? Visto che, come dici tu, hanno casa, famiglia e vizi da pagare, devono guadagnare in qualche modo; o, forse, è meglio che rubino?”.
Assolutamente no. Il fatto è che, visti dal di fuori, sembrano quasi tutti vivere per lavorare e non lavorare per vivere. Mi spiego meglio: tutti sono come prigionieri di un lavoro, di un luogo, di una persona, di un'abitudine, di una paura.
Mi fanno proprio pena quegli uomini con la camicia abbottonata fin sotto alla gola, tanto che sembra soffocarli, con giacca e cravatta; passano in quei macchinoni con i vetri oscurati, come per non restare abbagliati dalla luce della vera vita e del mondo, ed hanno fretta, la mattina, di rinchiudersi nell'atmosfera ovattata dei loro offici, nelle viscere di quei palazzoni anonimi. Mentre, di sera, hanno ancora più furia di trincerarsi nelle loro case, in condomini separati dal mondo per mezzo di ringhiere alte ed appuntite, sempre sorvegliati da un portiere. Evidentemente hanno scelto di vivere al riparo dagli altri uomini, dal vento, dal sole, dalla pioggia, selezionando minuziosamente l'atmosfera a cui sottoporre il proprio corpo e pure con chi avere un semplice scambio di sguardi. Infatti, pure quando scendono dall'auto e camminano in mezzo alle persone, non le guardano mai negli occhi.
Da parte mia, quando mi scorrono davanti e me ne sto tranquillo per terra, seduto o sdraiato, nemmeno chiedo loro una moneta, perché ho la mia dignità: loro percepiscono la mia presenza con la coda dell'occhio, senza il coraggio e la forza di guardare dentro ai miei occhi per un secondo, per viltà, superbia, menefreghismo o indifferenza generale verso il mondo. Gente così non sopravviverebbe ventiquattro ore in strada. Anzi, voglio essere ottimista: forse alcuni guarirebbero, se almeno trovassero il coraggio di umiliarsi, per non morire di fame”.
Marquinho si guarda intorno: i suoi occhi non smettono mai di muoversi da un oggetto, ad un angolo di strada, da una persona, ad un'auto che passa. Il suo modo di parlare sembra svogliato ma, improvvisamente, diventa vivace, persino energico, rinvigorito dal continuo gesticolare che accompagna e chiarisce i concetti che esprime. Ogni tanto, le sue mani stringono la croce del rosario di legno scuro che tiene al collo. Mi stupisce la facilità con cui si sta aprendo con me, il suo modo articolato di ragionare, fatto di ipotesi e conseguenze, il suo lessico ricco. Sembra abituato a parlare ed esprimere i suoi pensieri. Forse, interloquisce normalmente con sé stesso, mischiando i pensieri ai monologhi solitari e con me non sta facendo altro che dar voce al suo continuo fluire interiore. Anche perché non deve capitargli tutti i giorni che uno straniero stia ad ascoltarlo, addirittura registrando le sue parole.
Nella via qui accanto, come saprai, è pieno di prostitute. Ce ne sono per tutti i gusti: donne, uomini, travestiti, di tutte le taglie e misure. Questi 'signori', che di giorno fanno gli spocchiosi, di notte vengono qui, e in tanti, a cercare nel vero mondo una piccola fuga dal loro ambiente artificiale. Hanno bisogno di sentirsi ancora vivi e trovano in queste e questi sul marciapiede una sorta di angeli della notte. Ho sentito dire che alcuni clienti si innamorano, ma la maggior parte è così ipocrita da non ammetterlo e tornare sempre a casa dalle loro mogli-soprammobili, imbalsamate da loro stessi. Amico, queste qua, o questi qui, a seconda dei gusti, sanno fare tutto e sanno anche ascoltarti!”.
Qui temo che cada nel volgare...
Io: “Ma uno dovrebbe innamorarsi, perché 'sanno fare tutto'?”
Amico, non so da dove tu venga, ma chi non cede alle tentazioni della carne? Chi resta totalmente indifferente, in pensieri ed opere, alla prorompenza di un corpo caldo, sinuoso, seminudo ed ansimante? E chi, dopo una prima volta in cui ha fatto e si è fatto fare cose che fino a quel momento non aveva osato neanche pensare, non vi ricade? Diciamo che ci si affezionano; l'amore è una parola troppo ambigua. Ma tu, che hai soldi per andarci e mi sembri una mente aperta a nuove conoscenze ed esperienze, perché non provi? È un arricchimento anche questo, sai. Loro capiscono le persone al volo, meglio di tanti psicologi, perché sono aperte alla vita”.
Ehm, no guarda. Per il momento non è proprio il caso”.
Bah, fai un po' te... Ma che ora si è fatta? Mi sa che è il momento dell'altra birra, per oggi non mi va più di parlare”.
Ok. Anch'io sono stanco; dev'essere passata la mezzanotte già da un po'”.


giovedì 27 gennaio 2011

1. Di notte...




Quando il sole si abbassa dietro l'isola di Itaparica1 e le persone applaudono, chi alla Natura, chi al Dio cristiano, chi ad Òrun2 per ringraziarlo dello spettacolo quotidiano gratuito, e per la nuova venuta della notte, tempo di riposo, divertimento e mistero; nonché della luna, Oxú, ispiratrice di sogni e compagna degli amanti; e quando il vento fresco dell'oceano comincia a temperare il torpore di un'altra giornata tropicale, ecco, questo è il momento in cui inizia la magia nella città di Salvador, in quella vera, che non vuole e non sa adattarsi al conformismo e vive ancora dei vicoli stretti e ripidi, con un pavimento di pietre irregolari, con quegli occhi neri, grandi, luccicanti e la pelle color ebano. La miriade di luci dei grattacieli dei quartieri più ricchi, che coccolano manager, liberi professionisti e impiegati, si lasciano accompagnare dalle ben più numerose e fioche luci del resto della popolazione, che affronta la vita giorno per giorno, con il cuore mai tanto preoccupato per i problemi materiali, da non saper apprezzare una notte come questa, con quella luna che è come una madre che viene a coccolare e ravvivare i capelli, sussurrandoti all'orecchio parole d'amore. E, almeno per un po', tutti, nella parte più povera, si dimenticano di non poter ancora comprare la tanto sognata lavatrice, un nuovo frigorifero, un computer e di dover mangiare di nuovo riso e fagioli. Come per miracolo, nemmeno pensano a quello che non possono possedere o fare, perché, grazie a Dio, hanno già un tetto, una famiglia e dei figli. Almeno finché il nostro buon Dio continuerà a regalarci notti come questa, la nostalgia, l'invidia, e i sentimenti negativi non prevarranno mai nei cuori dei semplici. Non per una eroica scelta di umiltà, o per una capacità di sopportazione disumana; semplicemente per essere nati in un certo contesto sociale e familiare. Sempre che il nostro cuore non sia stato artefatto ed abbia assorbito abbastanza energia dalla tradizione e dalla Natura gratuita.

Fu in una notte come questa che lo incontrai per la prima volta: un'ombra qualunque nella notte, un corpo magro buttato per terra di fronte al cancello del mio condominio, nel centro di Salvador. Non so se dormisse o guardasse nel vento, se pregasse o sognasse, ma certo non era preoccupato di essere sporco dalla punta dei capelli alle unghie dei piedi e senza una maglietta da indossare, sopra ad un paio di bermuda ormai sfiniti. Al collo, portava un rosario di legno scuro. Ma non lo fissai a lungo e gli scorsi vicino.
E la notte seguente, rieccolo sotto casa, ma stavolta ben sveglio e rivolgendosi proprio a me. Sta frugando in mezzo ai sacchi di spazzatura, aprendoli per cercare la sua cena; capisco, tristemente, che se la notte se ne sta lì, è anche per usufruire degli avanzi del vicino ristorante, da dividere però con ratti, formiche e insetti vari. Mi chiede qualche moneta per comperarsi un pane. E così anche nelle due sere seguenti.
Quell'azione per me materialmente insignificante, provoca un crescendo di pensieri molto più profondi di un semplice gesto, che in realtà erano già stati seminati nella mia mente dallo spettacolo quotidiano per le strade della città. Sono, infatti, tantissimi i senzatetto a Salvador, di tutte le età e in quasi tutti i quartieri. Durante il giorno mi domando sempre più spesso che differenza ci sia tra me e loro, oltre a quello che mangiamo; quale merito avrei mai io di essere nato in una normale famiglia italiana? E, volendo ampliare i miei interrogativi, rasentando anche il confine delle domande idioti-improponibili, perché libero cittadino del mondo in questo secolo e non servo della gleba nel Medioevo o rematore di una triremi romana o uomo di Neanderthal?
Ma cosa ci possiamo fare se siamo costantemente tartassati da interrogativi, curiosità, inquietudini? O, dopo l'adolescenza, periodo in cui le questioni sono disordinate quanto stringenti, chiudiamo la bocca alla nostra coscienza, tuffandoci ciecamente nelle certezze più o meno solide e soddisfacenti messe in piedi da altri (tradizione e abitudine, mercato, gruppo di amici e famiglia), oppure indaghiamo, scaviamo, apriamo nuovi orizzonti, senza tapparci in tranquillizzanti rifugi che finiscono per curarci le ferite, bendarci e farci accontentare del piccolo appezzamento conquistato.
Certo, queste domande non possono trovare ma una risposta mi incuriosiscono su come sia la vita dei senzatetto di Salvador, per conoscere se la loro vita è davvero così o più disgraziata di come sembra, o se è solamente molto diversa dalla nostra; nella prima ipotesi, potrò considerare una possibile forma di aiuto, almeno per alcuni di loro.
Comincio con l'osservarli più attentamente: ce ne sono di quelli che se ne stanno fuori dai centri commerciali o dai supermercati, aspettando qualche briciola e vedendo centinaia di persone uscire con borse cariche di viveri (che loro non possono comprare in tale quantità), e di tante cose superflue (che non possono comprare neanche in piccola parte) e che le carica in auto (che loro non possiedono). O di quelli che se ne stanno sdraiati sopra un cartone al bordo del marciapiede, o ai semafori, o a fare il bagno in una fontana o al porto. Alcuni rimangono sempre al solito posto (supermercato, chiesa, angolo di strada, giardino), altri cambiano ogni giorno o seguono un ciclo settimanale.
Sento il bisogno di parlare loro. Certo, non è facile, abituati, sia noi che loro, a mantenere una sorta di vetro invisibile che impedisce l’instaurarsi di un dialogo che vada oltre una rapida e concisa richiesta di aiuto, una eventuale risposta e, ancora più occasionalmente, un frettoloso domandarci perché quella persona si trovi in tal situazione; e, magari, proviamo pure un po' di pena che, comunque, due minuti dopo è già lontana. È tutto molto formale, se entrambe le parti non hanno intenzione di eccedere la regola. E, generalmente, nessuna delle due ce l'ha: l'una, importunata e frettolosa, preferisce gettare qualche avanzo metallico senza guardare o, tutt'al più, abbassando lo sguardo per due secondi; l'altra perché mira unicamente a conseguire qualcosa di materiale. Non v'è interesse alcuno per il dialogo.
Sperimento proprio queste difficoltà, nei miei primi tentativi di abbordaggio: se li aiuto subito, le risposte alle mie domande diventano svogliate e monosillabiche; al contrario, se prima li interrogo, o sono ugualmente concisi perché comunque qualcuno che gli dia qualcosa senza fare noiose domande lo trovano comunque, oppure cercano di aggravare la loro situazione, volendomi impietosire affinché, finalmente, dia loro un cospicuo aiuto.
Tuttavia non mi scoraggio e continuo con i miei tentativi d'approccio. Del resto, leggere semplicemente uno o più libri di sociologia, articoli di giornale e documenti vari, non mi soddisfa, benché i numeri mi aiutino a cominciare ad intendere la realtà in questione, pur sapendo che un preciso censimento dei senzatetto risulta pressoché impossibile. I numeri che si trovano in rete sono a volte contrastanti: secondo il ministero dello sviluppo sociale e della lotta alla fame, nel 2008, i senzatetto a Salvador erano 3.2893 , nel 2009 erano scesi a 2.0104; fra questi, il 79,8% sono uomini, il 60,2% ha fra i 18 e i 39 anni e l'80% lavora, soprattutto come raccoglitori di rifiuti riciclabili. È soprattutto grazie a questi lavoratori silenziosi e senza alcuna assistenza sociale che il Brasile è il maggior riciclatore di alluminio al mondo5.
Dunque, per andare oltre queste cifre, devo trovare il momento giusto per parlare con qualcuno di loro; e mi ricordo di quel mendicante che, di notte, se ne sta sempre sotto casa mia e che mi ha rivolto lui stesso, per primo, la parola.
Aspetto la sera, pensando dentro di me alle parole più appropriate per la proposta che ho in mente; sarà molto difficile improntare una relazione totalmente disinteressata, di pura amicizia, ma vale la pena provare.

Ed eccolo davanti a me, al solito posto, e che mi rivolge le stesse parole dei giorni precedenti, per ottenere qualche centesimo. Ed io inizio come avevo programmato: “Amico, come ti chiami?”. “Marquinho”. “Io, Jairo. Senti, sto vedendo che i miei aiuti ti servono ben poco, perché tutte le sere ti ritrovo qui, a frugare nei rifiuti e chiedermi una mancia. Sai, ce ne sono tanti che mi chiedono qualche centesimo, quindi non posso aiutare solamente te. Allora, ti voglio proporre un modo per guadagnarti il pane, almeno per la sera”. Forse sono stato un po' brusco... Marquinho resta ad ascoltare, incuriosito; proseguo: “Mi piacerebbe sapere qualcosa di te, della tua vita, di quello che pensi e fai, delle tue aspettative e di quello che sai delle altre persone che vivono in strada. Vorrei incontrarti ogni sera per parlare; in cambio ti offrirei un panino ed una birra. Quindi non sarebbe più un'elemosina, ma un lavoretto. Non dovresti far altro che parlarmi di te e rispondere liberamente alle domande, da amici”. Marquinho è ancora più incuriosito. Dice che va bene, ma che non vede niente di interessante in lui da poter interloquire tutti i giorni; e che mi sarebbe presto venuto a noia. Comunque non ha che da guadagnarci e vuole incominciare da subito, dato che non mangia niente da stamattina, afferma. Io allora vado velocemente in casa a prendere il mio piccolo registratore e ci sediamo al bar dell'angolo.

1Itaparica è la maggiore delle isole presenti nella Baia de Todos os Santos, sulla quale si affaccia Salvador. All'approssimarsi del tramonto, molte persone si radunano nei pressi del faro (Farol da Barra), situato sull'estremità della penisola in cui si trova Salvador e che è anche una delle principali attrazioni turistiche della città. Al tramonto, dopo che il sole si è abbassato marcando il profilo dei leggeri rilievi dell'isola, tutti i presenti sono soliti battere le mani per il suggestivo spettacolo.
2 Nel Candomblé, una religione originaria dell'Africa molto diffusa a Salvador, è la divinità del Sole.

3http://correio24horas.globo.com
4www.grupomidia.com
5La questione e le cause di tale situazione sono troppo complesse da poter essere affrontate esaurientemente. Tuttavia ritengo interessante riportare ulteriori dati: nell'indagine del 2008, le persone interrogate sul motivo per cui vivessero in strada allegavano per il 12,7% problemi legati alla droga e all'alcool, per il 12,5% conflitti familiari, per l'8,4% la disoccupazione mentre il resto non ha risposto. Inoltre, il 35,3% viveva in strada o in case d'accoglienza da almeno 5 anni e solo il 44% possedeva un documento di identità. Alcuni studiosi hanno indicato nella chiusura dei manicomi, cominciata nel 2005 e che ospitavano circa 1,200 persone, il motivo dell'aggravio di tale situazione; secondo una ricerca della scuola baiana di medicina, infatti, circa il 22 % degli abitanti di strada ha seri trastorni mentali (fonte http://correio24horas.globo.com).

Premessa: perché un blog, perché gli occhi scuri del samba

Scrivere un blog può essere un banale passatempo, una maniera di tener traccia dei propri pensieri (quasi come un diario pubblico), il tentativo di chiamare l'attenzione e di mostrare la propria originalità (in una società che in ogni modo vuole renderci uniformi nei gusti e nei comportamenti) o una delle possibili valvole di sfogo di chi sente che, finita un'altra scialba giornata di lavoro, può finalmente dare inizio all'espressione del proprio io.
Forse, per me, è una somma di tutti questi elementi e queste parole sono il risultato di chi, umilmente, vuole far sentire la propria voce, sperando soprattutto di poter avviare uno scambio di pensieri che vada oltre una semplice chat, quasi per arrivare alle forme di corrispondenza di un tempo (che io, per motivi anagrafici, non ho mai provato), quando si riceveva la lettera di un amico lontano, ci sedevamo alla scrivania con carta e penna e con il pensiero cominciavamo a fantasticare sulla persona cara, su luoghi lontani e sul nostro prossimo viaggio per visitarli ed uscire dalla routine. Poi, quando non sapevamo più cosa scrivere, tornavamo alla nostra giornata. O meglio, così credo che avvenisse per la generazione precedente alla mia.
Ma forse, per pubblicare qualcosa teoricamente visibile da ogni parte del mondo serve anche un mix di presunzione (per pensare di aver qualcosa di interessante da esternare) e ingenuità (per credere che ci sia qualcuno che ti legga).

Perché ho scelto questo nome per il blog? Perché il samba è una musica umile e popolare, sorretta da ritmi variegati e spesso mutevoli; è schietta, spesso improvvisata, perché non deve inventarsi niente, ha già tutto quel che le serve in questo caleidoscopio di vita: amore, passione, entusiasmo, frenesia, illusione, sogno, speranza, nostalgia, ricordi, tristezza, solitudine, oscurità.
Di questo parla il samba e di questo intendo parlare attraverso gli spunti che la realtà passa ai miei occhi scuri in questa notte.