La realtà vista da una prospettiva differente

So quello che sono e sogno quello che non posso essere, ma non mi illudo di essere quello che sogno

martedì 8 febbraio 2011

3. La strada e il rosario


Marquinho: “Cosa vuoi sapere della strada? È qui, a portata di mano per tutti. Basta passarci intere giornate per scoprirla. La strada è questa che vedi davanti a noi. È tutto e il contrario di tutto: vita e morte; paradiso e inferno; prostitute e angeli; polizia e purgatorio; rifiuti e pulizia”.
Io: “Beh, allora raccontami qualche tua esperienza. Oppure dimmi se stare in strada è una tua scelta e se hai mai fatto qualcosa per uscirne”.
“Uscirne? Per andare dove? Quando sei in strada, sei fuori da qualcosa di non naturale, chiuso e quindi falso, non veritiero. La strada è il 'fuori'. È chi se ne sta in casa che, via via, se ne deve uscire, perché non resiste più al chiuso, sia per fare la spesa, per lavorare, o per cercare qualche forma di divertimento o passatempo. Io, invece, non ho bisogno di uscire: sono sempre fuori.
Perché, allora, dovrei fare qualcosa per lasciarla? Le poche possibilità che ho avuto, le ho buttate via, all'inizio istintivamente, ma, in seguito, per scelte ben coscienti.
Da bambino, per esempio, quando già non vedevo più mia madre, un signore parlò a me e agli altri bambini che chiedevano l'elemosina in un semaforo vicino al porto. Era di una certa associazione e voleva portarci in un 'centro di accoglienza', come lo chiamava lui. Diceva che là non avremmo dovuto lavorare, che c'erano tanti altri bambini come noi e avremmo potuto giocare e mangiare, senza preoccuparci di niente. Difficilmente avremmo rinunciato alla nostra libertà, abituati a non avere nessuno che ci dicesse cosa fare e non fare, quando mangiare, dormire, ecc. Anche se eravamo ragazzini, ne avevamo la consapevolezza. Tuttavia eravamo curiosi e senza nulla da perdere visto che, pensavamo, avremmo sempre potuto andarcene. Così, qualche giorno dopo, quando quel signore ritornò, quattro di noi salirono sul pulmino che ci portò in una specie di gran magazzino in periferia. C'erano tanti materassi buttati per terra e, in una zona separata, la mensa. Mangiavamo gratis, giocavamo a calcio e continuavamo a chiedere l'elemosina ai semafori, per comprare qualche dolcetto o un po' di fumo. Ma, dopo pochi giorni, il signore ci disse che non avremmo potuto più uscire quando pareva a noi. Avevamo degli obblighi: frequentare la scuola alla mattina, fare i compiti nel pomeriggio e dormire la notte. Ci era consentito giocare solamente negli orari prestabiliti ed all'interno del cortile, con gli altri bambini della casa di accoglienza. E ci disse che, se avessimo fatto i bravi ragazzini, forse un giorno qualcuno ci avrebbe adottato. Acconsentimmo, decidendo, in realtà, che era il momento di andarcene. Seppure per pochi giorni, avevamo mangiato gratis e dormito su un vero materasso. In verità uno di noi rimase là e seppi in seguito che venne adottato; chissà dove sarà adesso...
Quel signore venne altre volte al semaforo, ma non ne volevamo sapere di chi voleva imporci cosa fare delle nostre giornate. Nel frattempo però, i miei compagni avevano scoperto il gusto di sniffare la colla, fumare qualcosa di più del tabacco e diventavano sempre più strani; avevano imparato queste abitudini da altri ragazzi di strada più grandi di noi. Ma io non mi feci fregare, perché mi impaurivano le loro facce: sembravano, a volte, pazzi euforici, altre quasi morti. Così mi allontanai da loro e cominciai a vivere per conto mio, bambino piccolo e solo in un mondo sconosciuto e tanto grande. Eppure, proprio questa mia incoscienza fu la forza che mi diede continuamente coraggio e non spense mai la mia curiosità.
Fu allora che conobbi 'donna Sonia', una signora anziana che tutti chiamavano 'nonna'. Aveva uno sguardo tranquillo, rasserenante e mi chiamò figlio dalla prima volta che mi vide; di giorno, stava quasi sempre seduta sulla scalinata di una chiesa nella Praça Piedade1, in mezzo ad altri senzatetto. Mi chiese se stavo bene e se avevo fame e mi offrì un pezzo di panino; lo presi senza dir niente. Poi me ne restai lì qualche secondo e la guardavo senza fiatare. Allora lei mi abbracciò come nessuno aveva mai fatto prima; era cicciottella e calda. La sua stretta, contro quel petto grande e morbido, mi diede coraggio e un po' di speranza. Mi disse che avrei potuto star lì con lei e gli altri e così feci per diverso tempo. Non chiedeva mai dove andassi e non dava ordini, solo quel suo abbraccio e quello sguardo sereno, che non era di questa terra. O, per lo meno, non avevo visto in nessuno, fino a quel momento. Un giorno le chiesi come mai era così e mi disse che la sua forza veniva da Dio; le chiesi chi era Dio e lei mi rispose che è il nostro padre, la nostra madre e ogni sentimento buono che abbiamo. Le dissi che non avevo più né l'uno n'è l'altro, né tantomeno sentimenti non negativi; volevo sapere perché mai mi aveva dato una vita così dura e come potevo chiederGli aiuto e parlarGli. Mi rispose che un Dio in cielo ce l'hanno tutti, indipendentemente dal volerlo o no e che la mia vita, anche se ero un bambino povero ed orfano, era comunque vita e dovevo ringraziare per ogni minuto e secondo che mi venivano donati. Così, mi insegnò a pregare e mi regalò un rosario.

Marquinho si interrompe un attimo; saluta un suo compagno di strada, che ci sta passando davanti, sotto il peso e l'ingombro di un enorme sacco di lattine sulle spalle.
“Un'altra possibilità di avere una vita 'normale' l'ebbi qualche anno dopo. Quella volta, però, ero stanco della continua lotta quotidiana per mangiare qualcosa, ormai da tempo monotona. Ed anche la libertà aveva perso quell'alone magico che ha nei pensieri di un bambino. L'avventura che più sognavo di vivere era possedere, in un giorno non così lontano, almeno una parte di quelle cose che avevano tutti quelli che mi passavano davanti: una casa dove tornare la sera, una moglie da baciare e con cui costruire quella famiglia che non avevo mai avuto e che mi sembrava una cosa dell'altro mondo, una piccola comunità costruita sull'amore e non sulla forza. Sapevo di dover fare molti più sforzi degli altri per ottenere tutto ciò, ma ero convinto che avrei avuto un'ulteriore possibilità, che difatti venne da un'altra associazione. Rimasi in quest'altro centro per minori per un bel po'; certo, mi costava diversi sacrifici, come dover frequentare la scuola e far finta di fare quello che mi veniva ordinato. Ma c'erano tanti altri bambini che venivano dalla strada ed allora riuscivo a controllare la mia voglia di libertà. Imparai persino l'alfabeto e a leggere alcune parole, oltre a scrivere il mio nome. Mi dissero che avrei dovuto restar là finché non fossero risaliti ai miei dati anagrafici e poi avrei potuto essere adottato da una famiglia. Ed io immaginavo di diventare come quei bambini che vedevo dall'altro lato dei vetri, sui sedili posteriori delle auto, chiusi in un universo ovattato, dove altri sceglievano per loro cosa fare, dove andare, a che ore dormire, chi vedere, con chi e a cosa giocare. Certo, in quel periodo non avevo più bisogno di mendicare ai semafori, né dormire sui cartoni con un occhio aperto. Tuttavia non potevo andare a vedere il mio mare, in quelle notti così stellate che il cielo sembra un telo nero bucherellato e tanto vicino da poterlo toccare con il dito più corto; oppure pisolare nelle ore calde della giornata, correre e urlare in mezzo alla gente 'per bene', nei vicoli del centro o per le strade larghe del porto. L'unico cielo che potevo guardare era il soffitto della camera divisa con altri, finché non spegnevano la luce e dovevo sorbirmi il puzzo di urina tutte le notti, grazie a qualche mio compagno.
Quanto più diminuiva la mia volontà di accettare i sacrifici in cambio di una vita ‘normale', tanto più si risvegliava quel bisogno di libertà che avevo dato per morto: era il richiamo della strada, del mare notturno, del samba che può avvolgerti con le sue note in qualsiasi angolo di strada, che sia da un'auto, da un vecchio amplificatore di un bar, o dalla chitarra di un instancabile sognatore dai capelli ormai bianchi; e proprio questa discreta ma incessante voce interiore vinse sulla possibilità di una futura ed eventuale immagine di 'normalità'. Era il momento di fuggire.
“Ma non ti capita mai di desiderare un letto, un materasso, un tetto?”.
“Un materasso, a volte, lo trovo e un tettoia per ripararmi dalla pioggia c'è pure qui. È questa la mia normalità; siete voi la diversità, ché avete bisogno delle vostre case in affitto o comprate con sacrificio, almeno la maggioranza, senza poter cambiare quartiere, né tanto meno città da un giorno all'altro, se vi viene a noia. Per non parlare dei vicini, che potrebbero essere dei grandi scocciatori. La strada è la mia casa, io sono il padrone di tutte le strade. Dove c'è uno spazio libero, ci posso andare, senza dover pagare tasse o chiedere il permesso a qualcuno; questo proprio non lo concepite, eh? Perché lo so che noi senzatetto siamo guardati con pena... È vero che tanti di noi vorrebbero una casa, oltre ad altre cianfrusaglie, ma gratis e senza bollette varie, dal momento che non riuscirebbero a sostenere la maggior parte delle spese, senza un reddito decente. Eppure, sarebbe diritto di tutti avere una vita dignitosa. E parlo soprattutto di chi si è adattato a vivere in una abitazione, magari con moglie e figli, e si vede costretto a stabilirsi per strada, perché non può più permettersela, o perché disoccupato, o perché guadagna una miseria con un lavoro, a volte, massacrante.
Bene, amico. Per oggi, finiamola qui: sono stanco, ho camminato parecchio per raccattare le lattine e portarle al centro di raccolta. Vado nel mio lettuccio. Ciao a domani”.
E il mio amico se ne va a sedersi sui suoi cartoni, coperto da un lenzuolo sudicio e bucherellato. Lo lascio che guarda il passare delle poche auto, ormai a notte inoltrata. Forse prosegue nei suoi pensieri, forse ne elabora altri che non vuole condividere con me; o, magari, si lascia semplicemente vivere.
1Praça Piedade, letteralmente 'piazza della misericordia', è situata nel centro di Salvador ed ospita abitualmente decine e decine di mendicanti, giorno e notte, oltre alle loro poche cose, tenute in sacchetti di plastica ed accumulate su cartoni e lenzuoli logori. Su di essa si affacciano due chiese (Nossa Senhora da Piedade, e São Pedro) e deve il suo nome al fatto che essa era, fra 1700 e 1800, teatro delle esecuzioni capitali dei condannati a morte. La piazza è anche la sede della facoltà di economia dell'università federale di Bahia, del Gabinete Português de Leitura (istituzione culturale e letteraria di studi lusofoni), del comando della Polizia civile e fa parte di uno dei circuiti del carnevale baiano. Tanta storia, tanti ruoli, tanta sofferenza ed indifferenza.

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